domenica 27 dicembre 2020

IL MITO DI ERCOLE. LE FATICHE DELL'UOMO CONTEMPORANEO

 

Il mito di Ercole

Le fatiche dell’uomo contemporaneo

27 DICEMBRE 2020, 
Bisogna davvero essere disperati per deporre le armi e abbandonare tutti gli strumenti di ricerca, nell’affidarsi totalmente al divino è la salvezza
Bisogna davvero essere disperati per deporre le armi e abbandonare tutti gli strumenti di ricerca, nell’affidarsi totalmente al divino è la salvezza

La sensazione di essere costantemente inadeguati, di non valere mai abbastanza, di essere incessantemente disapprovati dall’autorità genitoriale prima e da quella istituzionale poi, è uno dei ganci che il sistema capitalistico, basato sul principio di produzione e competitività, utilizza per mantenere le persone in uno stato di continua insoddisfazione. Questo fa precipitare le persone in una condizione di inappagamento che le conduce verso il bisogno spasmodico di produrre, consumare beni e ahimè distruggere relazioni, con la conseguente illusoria e transitoria percezione di sentirsi “inseriti nel sistema”. Ma è una condizione vana, ci sarà sempre chi produce di più, chi è più bravo e capace di…, chi possiede di più. La frustrazione impera nell’uomo contemporaneo, forse perché ha desacralizzato la relazione primigenia con la natura, con l’Anima del Mondo e con la sua anima? Oppure perché ha interrotto il flusso nel cordone ombelicale che lo lega all’invisibile, popolato dagli spiriti degli elementi, dagli archetipi, dalle eidos? Di quelle forme ideali che fanno “esistere”il mondo stesso: svuotandole di senso, l’uomo è rimasto senza più la sua connessione con la terra, perdendo quel senso di unità che il contatto con Gea gli donava dentro di Sé.

E qui interviene il mito, parola che significa narrazione, logos, la fonte primaria delle informazioni sulla storia dell’uomo, il racconto sacro della condizione umana al di là del tempo, che agisce anche se non ne abbiamo consapevolezza. Quando l’individuo viene sospinto nella sua mente razionale e della sua logica materialistica, non è in grado di accorgersi dei messaggi che i miti portano con sé e tende a sfuggire dal loro profondo significato: le figure mitologiche hanno infatti la funzione di tramandare tale conoscenza.

Questa condizione di continua manchevolezza, di penuria quantitativa e qualitativa conduce l’uomo contemporaneo a sentirsi come Ercole che con le sue dodici fatiche cercava di essere all’altezza di un dio ma non ci riusciva mai: non concludendo mai questa frustrante corsa alla perfezione, sfinito dalla fatica decide quindi di bruciare se stesso. Se si interpreta questa azione in termini metafisici piuttosto che letterali si comprende che la soluzione per uscire fuori da questo circolo vizioso è la dissoluzione dell’Io, quello che Jung indicava come parte del percorso di individuazione, erroneamente inteso come individualità, il cui culmine è scoprire chi veramente siamo. Tale processo porta al disfacimento della mente razionale e delle sue credenze limitanti e dogmatiche: il mito rivela all’uomo la verità e gli regala una grande lezione. Ercole suggerisce di non cercare sempre di soddisfare le esigenze che giungono dall’esterno e dall’autorità ma di accettare se stessi e amarsi, in quanto “sei perfetto così come sei”. Nel preciso momento in cui Ercole decide di darsi fuoco, Zeus lo afferra e lo porta nell’Olimpo, così diventa un dio come gli altri. Solo quando ha bruciato la sua identità diventa divino, scopre il divino in sé nella resa più totale, nell’abbandono, in un atto di fiducia dettata dalla disperazione. Bisogna davvero essere disperati per deporre le armi e abbandonare tutti gli strumenti di ricerca, nell’affidarsi totalmente al divino è la salvezza. Ercole in quell’istante è sciamano, ha destrutturato il suo Io, ha viaggiato tra i mondi dissolvendo e manifestando la realtà illusoria.

L’uomo contemporaneo riflette ancora quello stadio in cui Ercole si affanna nella lotta contro i mostri che non sono altro che parti di se stesso. L’Idra e le altre sfide poste innanzi all’eroe antico e all’antieroe moderno rappresentano l’illusione del raggiungimento di una perfezione divina che non è alla portata della mentalità letterale e logica, ma solo la lettura del mito con una mente poetica, quella sciamanica che trascende la razionalità, apre le porte dell’Olimpo e tutti gli dei accorrono e accolgono l’eroe, considerandolo finalmente come uno di loro.

Cito un passo del libro Il suicidio e l’anima di James Hillman che illustra magistralmente l’opera psichica del mito: “I miti governano le nostre vite. Pilotano da sotto le storie cliniche attraverso la storia animica. L’irrazionalità, l’assurdità e l’orrore di quegli esperimenti della natura che sono le nostre vite sono assunti su di sé dalle immagini e dai motivi mitologici, diventando in tal modo un po’ più comprensibili. Ci sono persone che devono vivere malamente la vita e poi morire malamente. Come altrimenti possiamo spiegarci il crimine, la perversità, il male? L’affascinante intensità di tali vite e di tali morti mostra che sono all’opera cose che trascendono il meramente umano”.

Ercole è un semi-dio, figlio della regina Alcmena, nome che significa forza d’animo, e di Zeus: è venuto alla luce dopo tre giorni, numero che in alchimia simboleggia il processo creativo di un nuovo uomo. Fin da bambino mostra una forza sovrumana, infatti riesce a strozzare i serpenti che la moglie di Zeus, Era, invia per ucciderlo quando è ancora in fasce. Il suo nome è quindi intriso delle qualità umano-divine dei suoi genitori, che sviluppa durante la crescita con gli insegnamenti di vari maestri, impara dal centauro Chirone la medicina, la musica e l’astronomia, diventa esperto nella lotta e nell’uso delle armi che gli saranno utili per superare le dodici fatiche.

Esploriamo brevemente il mito di Ercole: Era odia Ercole perché frutto dei tradimenti del marito e utilizza dei sortilegi per ucciderlo, simbolicamente metterlo alla prova, lo priva della ragione per pochi attimi ed Ercole in preda alla follia uccide moglie e figli. Consapevole del fattaccio, Ercole tenta il suicidio ma inutilmente, così si rivolge a Teseo, suo amico, che gli consiglia di interpellare l’oracolo di Delfi per sapere come redimersi. La risposta lo conduce al re Euristeo che gli impone di superare dodici fatiche, simbolo del viaggio iniziatico dell’Eroe e dell’incontro con le istanze psichiche profonde che devono essere trasmutate per recuperare la consapevolezza di essere figlio di Dio. E che sia proprio Euristeo a indicargli la via non è a caso, infatti, il suo nome significa stabile, fisso come la materia dell’opera alchemica, incorruttibile.

Le dodici fatiche rappresentano le prove, le difficoltà che ogni uomo affronta per liberarsi dalla materia e ritrovare la componente spirituale, ogni creatura mostruosa è una parte di sé che deve essere vista e dissolta con l’amore.

Prima fatica: l’uccisione del Leone di Nemea che simboleggia l’uccisione della personalità, il predominio del cuore nel cammino iniziatico, il coraggio di spalancare il cuore ed affidarsi ad esso. Ercole uccide il leone strangolandolo con il suo braccio, unico mezzo visto che la pelliccia dell’animale era impenetrabile da armi di metallo, ma questa pelliccia diventerà il mantello che lo renderà invincibile per le altre sfide.

Seconda fatica: la distruzione dell’Idra di Lerna, serpente a nove teste di cui la centrale era immortale, simbolo del dominio sul desiderio che dirige la volontà.

Terza fatica: consiste nel catturare la cerva di Cerinea, simbolo dell’intuizione che dirige l’intelletto, non viceversa.

Quarta fatica: catturare il cinghiale di Erimanto, simbolo dell’emotività controllata ed il raggiungimento dell’equilibrio interiore.

Quinta fatica: ripulire in un giorno le stalle di Augia, simbolo dell’acqua purificatrice, della comprensione del profondo valore del servizio.

Sesta fatica: disperdere gli uccelli del lago Stinfalo, simbolo del controllo della mente inferiore distruttiva.

Settima fatica: catturare il toro di Creta, simbolo dell’energia sessuale creativa che conduce all’illuminazione se indirizzata nell’aspirazione al divino.

Ottava fatica: rubare le cavalle di Diomede, simbolo del controllo della mente e la spinta spirituale ad aiutare gli altri, operando la giustizia.

Nona fatica: impossessarsi della cintura di Ippolita, regina delle Amazzoni, simbolo dell’insuccesso temporaneo, l’iniziato deve continuare la sua opera nonostante il pericolo di sbagliare, ogni nuovo inizio è soggetto ad errori ma è necessario perseverare.

Decima fatica: rubare i buoi di Gerione, simbolo dell’uomo divenuto salvatore del mondo dopo aver trasceso la parte animale di se stesso.

Undicesima fatica: rubare i pomi d'oro del giardino delle Esperidi senza sapere dove andare, simbolo della conoscenza e subordinazione del corpo fisico, del desiderio e della ragione.

Dodicesima fatica: portare vivo Cerbero, il cane a tre teste guardiano degli Inferi, a Micene, simbolo della sua completa iniziazione, ora è un semidio, uomo e Figlio di Dio capace di fare il viaggio ctonio tra i mondi.

O Ercole, il più bel essere cosmico
Le tue fatiche ci reclamano, ora così liberatorie
La tua luce guida canta nella notte
Dalle stelle così luminose, noi siamo la tua forza!

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Maria Burgarella
Nata a Trapani e laureata in Psicologia all’Università “La Sapienza” di Roma, è studiosa di Alchimia Trasmutativa, psicologia quantistica, tecniche a mediazione corporea. La passione per l’arte e la scrittura si integrano nel suo approccio olistico alla comprensione della Psiche.

venerdì 27 novembre 2020

LA VENERE ERYCINA E IL FEMMININO SACRO.

 

La Venere Erycina e il femminino sacro

Il culto della Grande Madre a Erice

27 NOVEMBRE 2020, 
Lela Burgarella, Le Jerodule, servitrici della Dea
Lela Burgarella, Le Jerodule, servitrici della Dea

La mia terra natia è la Sicilia, pervasa di misteri, fucina di antiche scuole esoteriche ed esempio di cultura matriarcale legata al culto della Grande Madre, archetipo del femminino potente e numinoso strettamente connesso con la Luna, con l’inconscio, dal significato simbolico ambivalente. La terra, infatti, accoglie nel suo utero, genera vita ma al contempo la distrugge in un ciclo incessante di nascita-sviluppo-maturità-declino-morte e rinascita che caratterizza sia la vita dell’uomo che i cicli cosmici. Questo processo è ben simbolizzato dall’Uroboros o serpente cosmico che divorando sé stesso si rigenera.

Un simbolo del femminino è la montagna che ispira la trascendenza, è axis mundi ovvero simboleggia l’asse che collega il cielo alla terra, così come tutte le costruzioni che tendono verso l’alto ripropongono la sindrome edenica cioè il desiderio di ricongiungersi con il divino, di superare la dualità basata sulla separazione illusoria tra l’Io e il Tutto che genera un senso di abbandono, di mancanza.

La mia città, Trapani, ha la sua montagna sacra, “U munte”, Erice, con il suo borgo medievale la cui origine affonda nel mito.

Diodoro Siculo narra che Erice fu fondata da Eryx, Re degli Elimi, figlio dell’argonauta Bute e di Afrodite, che dedicò la montagna a sua madre e fece erigere in suo onore un tempio sulla vetta. Inoltre la tradizione vuole che questo luogo sia stato abitato dai Ciclopi da cui prende il nome l’architettura ciclopica delle mura ericine o di quelle di Mozia antica. Da decenni viene custodita ed esposta in un negozio di prodotti tipici ericini una scultura molto amata dagli abitanti che raffigura un ciclope, tappa obbligata per i numerosi visitatori che affollano le strette vie del borgo.

Il mito narra che Erice sfidò Ercole, venuto a visitare il territorio, stabilendo un patto: se avesse vinto Ercole avrebbe ceduto le vacche sacre che portava con sé, in caso contrario Erice avrebbe ceduto le sue terre. La sfida vide vittorioso Ercole che con magnanimità lasciò il regno di Erice ai suoi abitanti.

Ma prima di esplorare il culto della Venere Erycina ritengo utile fare una premessa.

Nella cultura siciliana è ancora presente il principio dell’uovo cosmico come fondamento dell’universo e l’acqua come principio di fecondità.

L’uovo è infatti elemento sempre presente nella cucina tradizionale e delle festività. E non a caso, ma perché esso è simbolo del rinnovamento della vita. In molti miti siciliani, inoltre, sono protagonisti sia l’acqua che le ninfe. Conoscere il mito mediterraneo dell’uovo cosmico, fa comprendere le radici profonde delle tradizioni siciliane e del culto della Venere Erycina di cui mi appresto a narrare.

Questo mito inizia con l’emersione dal Chaos della Grande Dea nuda che, non trovando un appoggio, divise il cielo dal mare e cominciò a danzare sulle onde. Danzando vorticosamente si diresse verso Sud spinta piacevolmente dal vento caldo che l’accarezzava. Ad un certo punto si girò per afferrare il vento, lo sfregò tra le mani trasformandolo in un serpente gigantesco. Così la Dea riprese la danza a ritmo ora frenetico, passionale, accendendo il desiderio nel serpente che sfociò poi in un amplesso travolgente. Volando a pelo d’acqua la Dea si trasformò in colomba e depose l’uovo cosmico, ordinando al serpente di avvolgerlo tra le sue spire per sette volte. Dall’uovo dischiuso nacquero tutte le cose esistenti, il rettile però si vantò di essere l’artefice della creazione provocando l’ira della Grande Madre che lo imprigionò negli oscuri recessi di una caverna.

In questo affascinante mito delle origini vi è l’entità primigenia Chaos ed il principio femminile, Shekhinah, la dimora della parte femminile di Dio che ha la funzione di conciliare gli opposti, di unire cielo e terra. Il femminile fa da mediatore, quindi, tra il mondo divino e il mondo umano, la creazione del mondo materiale infatti è l’espressione femminile del Dio maschio e rappresenta essa stessa lo Spirito.

L’energia femminile opera nel buio, nelle profondità marine, è nell’oscurità dell’inconscio che avviene la cura dell’anima, la guarigione delle ferite, la trasmutazione delle energie inferiori. La Grande Madre è salvatrice e distruttrice, è la Dea dai mille volti e dai tanti nomi, Astarte per i Cartaginesi, Toruc per i Fenici, Afrodite per i Greci e infine Venere per i Romani.

Esploriamo quindi le caratteristiche uniche e ben strutturate del culto della Venere Erycina: affonda le sue origini in oriente come si deduce dal simbolo del cane consacrato ad essa e a molte divinità orientali lunari. Un’altra peculiarità è la prostituzione sacra, praticata già in oriente da secoli e in pochi luoghi nel mediterraneo tra i quali Erice, ellenizzata dal 750 a.C.

Dal mito origina anche l’allevamento di colombe: dal tempio, infatti, al ritorno della primavera le sacerdotesse ne liberavano uno stormo, atto simbolico dell’epifania dello spirito, diretto all’omologo tempio cartaginese di Sicca Veneria, mentre dall’Africa altre colombe giungevano al tempio ericino.

Il sontuoso santuario di Venere Erycina era il tempio più bello e più visitato di tutta la Sicilia: strabordava di oro, argento e tesori accumulati nel tempo. Fu costruito all’aperto, sull’asse nord-est/sud-ovest come tutti i templi orientali, su una piattaforma di base progettata dall’architetto Dedalo che possiamo ammirare a tutt’oggi. Molti alberi e colonne lo circondavano, vi era inoltre un suggestivo pozzo sacro dove le sacerdotesse e la Dea si immergevano per purificarsi.

Con i romani il culto diventerà religione pubblica, infatti nel 211 a.C. fu portata la statua della Dea dal tempio di Erice a Roma e furono poi edificati due templi in onore alla Venere Erycina. Con l’avvento della religione cristiana, nel quarto secolo d.C., il tempio fu distrutto e sulle rovine elimo-fenicie-romane fu costruito dai Normanni il Castello di Venere, tutt’ora meta di turisti da tutto il mondo.

Dal racconto del filosofo Licofrone la Dea avrebbe salvato le tre figlie del troiano Fenodamante portandole sul monte Erice. Egesta, la maggiore, si accoppiò con il fiume Crimiso che assunse le sembianze di un cane e dall’unione nacque Ergeste, fondatore di Segesta. Si narra che periodicamente al tempio si consumasse un amplesso tra una delle Jerodule, le sacerdotesse ericine, e il Gran Sacerdote del Tempio che indossava la maschera di un cane.

La prostituzione sacra era praticata dalle Jerodule che arrivavano da ogni parte dell’isola ed offrivano la loro verginità alla Dea congiungendosi con i viandanti che arrivavano fin lassù, ogni compenso ricevuto arricchiva il tesoro del tempio che fu razziato per le sue ricchezze da Amilcare Barca.

Le Jerodule erano “servitrici della Dea”, giovani vergini che praticavano riti sia sessuali celebrando così lo hieros gamos, il matrimonio divino, che riti con danze e musiche. Inoltre, esse avevano il compito di mantenere il fuoco acceso dell’ara come segnale per le navi di passaggio.

La dimensione rituale è imprescindibile per la psiche. Come afferma Mircea Eliade: “Ogni rito, ogni mito, ogni credenza, ogni figura divina riflette l’esperienza del sacro, e di conseguenza implica le nozioni di essere, di significato, di verità. Il ‘sacro’ è insomma un elemento nella struttura della coscienza, e non è uno stadio nella storia della coscienza stessa. Ai livelli più arcaici di cultura vivere da essere umano è in sé e per sé un atto religioso, poiché l’alimentazione, la vita sessuale e il lavoro hanno valore sacrale. In altre parole, essere – o piuttosto divenire – un uomo significa essere ‘religioso’.”

Il sacro è la divinità che emana parti di se stessa nelle forme manifestate, è l’unione tra cielo An e terra Ki, tra principio maschile e femminile, da questa diade si manifesta l’Anima del Mondo.

Attraverso l’esperienza del sacro l’uomo soddisfa il bisogno innato di significato, di senso sia del mondo che dello stare nel mondo, conquista lo stato di coscienza non duale, quel paradiso perduto con la nascita dell’Io che è principio di separazione dal Tutto, l’uomo ritrova così l’unione col divino.

Nel rito sacro vi sono degli elementi ben precisi impregnati di energia vivificante: colui che vuole il rito, colui che lo celebra, l’offerta sacrificale e colui al quale l’offerta è dedicata ovvero il divino nelle sue infinite forme.

E qual è la matrice di tutte le energie se non l’energia erotica? Essa è l’energia creativa per eccellenza, è strumento di conoscenza, la vera conoscenza infatti è un atto erotico che spalanca il portale di accesso ad uno stato di coscienza ampliato in cui avviene l’unione con il mondo delle idee, degli Dei che sono aspetti del divino onnipresenti in tutti gli elementi della natura.

La sessualità è un atto creativo sacro, è offrire il Sé, è fare l’amore con il divino, con l’Anima del Mondo che è la manifestazione stessa del Sé. Così si sperimenta l’estasi, l’ispirazione, la liberazione dai condizionamenti dell’Io.

L’atto sessuale nella prostituzione sacra simboleggia l’offerta alla Dea della potente energia che si scatena durante l’amplesso, per rinnovarne la fecondità, per favorire il rinnovamento dei cicli cosmici e l’abbondanza dei raccolti. Esso avveniva all’aperto, in connessione diretta con gli elementi e con l’offerta dei residui degli amplessi alla madre terra.

In questa ottica quando un uomo e una donna scelgono di unirsi per fare l’amore diventano sacerdote e sacerdotessa, incarnano i due principi universali dalla cui fusione deriva la manifestazione delle forme nel mondo. Dedicare l’atto d’amore a qualsiasi cosa che abbia un valore benefico per l’umanità e per il cosmo, sacralizza l’energia quantica che viene rilasciata nell’atto sessuale, in quel momento di vuoto, di connessione con il campo unificato della pura coscienza.

Il solo Tempio veramente sacro è il mondo degli uomini uniti dall’amore.

(Lev Tolstoj)

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Maria Burgarella
Nata a Trapani e laureata in Psicologia all’Università “La Sapienza” di Roma, è studiosa di Alchimia Trasmutativa, psicologia quantistica, tecniche a mediazione corporea. La passione per l’arte e la scrittura si integrano nel suo approccio olistico alla comprensione della Psiche.

martedì 27 ottobre 2020

Intervista a Marzia Sucameli. La medicina antiaging e il successful-aging: come vivere a lungo e in salute.

 

Intervista a Marzia Sucameli

La medicina antiaging e il successful-aging: come vivere a lungo e in salute

27 OTTOBRE 2020, 
Tutto è Uno, come nell'universo così in noi
Tutto è Uno, come nell'universo così in noi

La ricerca dell’eterna giovinezza e della longevità ha radici antiche nell’uomo ed è quanto mai attuale nella società contemporanea. Vivere a lungo in ottima salute, prevendendo le malattie e intervenendo sullo stile di vita, adesso è possibile grazie alla medicina antiaging e agli strumenti che utilizza come il test del DNA e del microbiota.

Numerosi studi su alcune popolazioni longeve, come, ad esempio, quella degli Hunza che vive ai piedi dell’Himalaya, hanno cercato di individuare gli ingredienti della ricetta per la longevità. Gli Hunza raggiungono infatti l’età di 120/140 anni in buona salute, praticamente quasi immuni alle malattie e autosufficienti. Il loro stile di vita è considerato ottimale, ecco gli ingredienti: semi-digiuno, alimentazione ricca di vitamine, sali minerali e antiossidanti, costante esercizio fisico, assunzione di acqua alcalina presente nel loro territorio, infine, si aggiunge un atteggiamento psicologico orientato all’ottimismo e una marcata spiritualità, una ricetta per l’autosufficienza anche in età avanzata che sposa benissimo i principi base della medicina antiaging.

Negli ultimi anni assistiamo al diffondersi di discipline mediche legate alle nuove scoperte sul DNA: la nutrigenomica, la nutrigenetica e la nutriceutica, che aprono prospettive innovative sul raggiungimento del benessere psico-fisico e sulla longevità.

Qualche tempo fa ho assistito ad una conferenza dal titolo Il segreto della longevità nella medicina antiaging su queste tematiche condotta dalla Dott.ssa Marzia Sucameli, nutrizionista clinica, biologa ed esperta in medicina preventiva e rigenerativa. Dall’incontro con lei è nata un’intervista su questi argomenti che ritengo essenziali nell’ottica di un approccio integrato e olistico alla cura della persona.

In questi ultimi tempi si parla sempre più spesso di nutrigenetica e nutrigenomica, cosa le differenzia?

La nutrigenetica è la scienza che si occupa di come un determinato cibo influisce sul DNA mentre la nutrigenomica studia la risposta o reazione dell’organismo ad un determinato alimento.

L’unione di queste due branche offre una nuova comprensione su come cambia l’espressione dei geni in base a come ci nutriamo, è ormai assodato che vi sia una corrispondenza biunivoca tra quello che ingeriamo e quello che siamo e viceversa.

Assistiamo quindi ad un cambio di paradigma epocale nella medicina tradizionale, il focus adesso è sull’alimentazione, sull’esercizio fisico e sul test del DNA che permette di dedurre le predisposizioni genetiche alle malattie e quindi di prevenirle.

Dott.ssa Sucameli, lei consiglia ai suoi pazienti di effettuare il test del DNA, qual è la sua utilità?

Il test del DNA è il check up di questa nuova medicina, rappresenta la fotografia dello stato attuale e futuro della persona e non cambia nel tempo infatti è sufficiente effettuare il test una sola volta. Permette di conoscere quali sono le intolleranze alimentari e la predisposizione ai processi infiammatori. La medicina preventiva non intende modificare il DNA ma modulare l’espressione dei geni. Cambiare l’espressione genica significa, per semplificare, che se ho il gene che predispone alle malattie cardiache e muto la sua espressione genica tramite un cibo faccio sì che quel gene non si esprima per quello per cui è nato. È come se in una stanza avessi una luce e potessi modificare l’intensità di questa luce accendendo o spegnendo un interruttore; il ruolo dell’interruttore è rappresentato dal cibo, infatti, con le molecole chimiche del cibo posso modulare i geni accendendoli o spegnendoli, quindi somministrando certi nutrienti per quel gene ho buone possibilità di gestirlo.

In cosa consiste il piano terapeutico successivo al test del DNA?

Il test del DNA racconta nel dettaglio sia la predisposizione genetica che lo stato di salute attuale della persona e permette di strutturare la terapia nutrizionale atta a prevenire le malattie a cui si è predisposti o a procrastinarle nel tempo. Si propone al paziente un’alimentazione specifica personalizzata, utilizzando i nutraceutici, una sorta di cibo-farmaco. Essi sono infatti i nuovi farmaci naturali costituiti dalle molecole del cibo, si utilizzano così i nutrienti o gli estratti dei nutrienti in capsula ovviamente sotto stretto controllo del medico antiaging.

La qualità e polarità dei pensieri incidono sulla salute psicofisica?

I pensieri e le emozioni producono una cascata biochimica nell’organismo poiché si traducono nella produzione di endorfine, serotonina, dopamina, per citarne alcune, quindi la gestione e l’elaborazione delle emozioni insieme alla dieta, all’esercizio fisico sono i fattori essenziali per il benessere psico-fisico.

La medicina olistica di cui mi occupo integra e unisce mente, corpo e cibo. Ritengo basilare inoltre spiegare ai pazienti che cos’è il ritmo circadiano, cosa significa nutrirsi in base agli orari di luce e buio, in che modo il proprio stato d’animo influenza l’assimilazione del cibo. È una medicina molto complessa ma è la medicina del futuro su cui bisogna puntare.

Il cambio di paradigma che offre la medicina antiaging come viene accolto dalla medicina allopatica?

Ci sono moltissime resistenze da parte della medicina ufficiale, sono convinta però che non bisogna scardinare la vecchia medicina ma affiancarla alla nuova, per questo occorre superare questa riluttanza della classe medica per il bene di tutti.

La medicina allopatica si basa sulla prescrizione di uno specifico farmaco per ogni preciso sintomo fisico, ciò purtroppo non fa che deresponsabilizzare la persona dal lavoro su se stessa e dalla consapevolizzazione di come vive, di come si nutre, di come gestisce le emozioni.

I farmaci non guariscono ma agiscono sui sintomi, esistono dei farmaci essenziali ma sono davvero pochi, in effetti il 90% di essi potrebbe facilmente essere eliminato. L’obiettivo della nuova medicina olistica è far diventare la persona terapeuta di se stessa sostituendo gradualmente i farmaci con i nutriceutici o con i probiotici.

Quindi nel futuro potremo avere meno bisogno dei medici?

Avremo bisogno di medici che insegnano questo nuovo tipo di medicina, non più del medico prescrittore ma di un medico che ti guida, come un amico che ti consiglia cosa è meglio per te. Il paradosso è che oggi si va dai medici quando già si è malati, in questa nuova medicina si va dal medico quando si è sani per prendersi cura di se stessi ancor prima che giunga la malattia.

Come definire questa nuova medicina?

Medicina preventiva, pre-degenerativa, antiaging, il cui motto è “se previeni non ti ammali e invecchi bene”. Essa è chiamata successful-aging (invecchiamento di successo) perché il nostro DNA è programmato per arrivare a 110/120 anni sani con prestazioni fisiche e mentali non dissimili da quelle di un sessantenne e adesso è possibile farlo.

Come è strutturato l’approccio terapeutico della medicina antiaging?

Nella prima visita che dura alcune ore, si inquadra il paziente nel suo micro cosmo, indagando a 360 gradi sugli stressor, sulle problematiche psicologiche e familiari, sui gusti e abitudini alimentari, sullo stile di vita. Si suggerisce quindi di effettuare il test del DNA, indispensabile per offrire un trattamento personalizzato al paziente, insieme al test del microbiota che permette di individuare quali sono i batteri che abitano l’intestino. Esso è chiamato anche secondo cervello per l’importanza della sua connessione e comunicazione con tutti gli altri organi. In base agli esiti di questi esami è possibile per il medico antiaging prescrivere la terapia personalizzata, non solo nutrizionale o nutraceutica ma anche centrata sulla modifica dello stile di vita, suggerendo il tipo di esercizio fisico adatto al paziente, su come gestire le emozioni, offrendo tecniche di respirazione e di meditazione, è a tutti gli effetti una medicina olistica.

È preferibile, dunque, una visione dell’uomo come un’unità complessa, piuttosto che la frammentazione delle sue parti affidate a varie specializzazioni?

Certo, la medicina olistica, dal greco olos – tutto, intero, non è una medicina che va per settori separati, com’è purtroppo quella attuale, ma considera l’essere umano un’unità indivisa. È fondamentale quindi che l’intervento terapeutico sia unitario perché solo questa può essere la strada per la vera guarigione. La medicina prescrittiva che è esistita fino ad adesso somministrando un farmaco elimina unicamente il sintomo ma non rende il paziente consapevole della necessità di lavorare su se stesso per ottenere un ottima salute psico-fisica senza avere bisogno di un farmaco esterno.

Nella sua esperienza con i pazienti, come viene accolto questo tipo di approccio?

In modo molto favorevole, infatti posso affermare di ottenere il 100% dei risultati, perché mi rendo conto che i pazienti comprendono sempre di più il ruolo dei farmaci considerati come xenobiotici cioè sostanze estranee, dei veleni da cui l’organismo deve difendersi. Inoltre questo metodo viene apprezzato perché rende il paziente padrone della sua vita e, vedendo i risultati del cambiamento di stile di vita sulla sua salute psico-fisica, è soddisfatto. Il successo è garantito.

Il cambiamento di paradigma della medicina antiaging rientra nella visione olistica dell’uomo che sta attraversando varie scienze. Essa è una visione dell’intero, della totalità che supera le settorialità e le divisioni a favore di una unione e integrazione di saperi prima separati. Così come nell’Universo tutto è collegato e interdipendente così le parti che compongono l’essere umano sono anch’esse interconnesse. È tempo di consapevolizzare come tutto accada dentro di noi e che possiamo influenzare con la coscienza la realtà, quindi anche la nostra salute psico-fisica divenendo terapeuti di noi stessi nel cammino esistenziale che è un susseguirsi di preziose fasi in un continuum temporale dai confini sfumati, in cui la consapevolezza del significato profondo delle esperienze accumulate negli anni ha un valore inestimabile in termini di acquisizione di saggezza, di leggerezza, di autoironia, per saper stare nel mondo sani e felici.

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Maria Burgarella
Nata a Trapani e laureata in Psicologia all’Università “La Sapienza” di Roma, è studiosa di Alchimia Trasmutativa, psicologia quantistica, tecniche a mediazione corporea. La passione per l’arte e la scrittura si integrano nel suo approccio olistico alla comprensione della Psiche.